Labor. New Workplaces, Theories and Forms of Collaboration

Abstract

Labor è il titolo scelto per WAVe 2025 ed esprime la volontà di alimentare un confronto teorico e progettuale sul destino degli spazi del lavoro, sulle metamorfosi e sulle innovazioni che ciascun luogo può innescare in una contemporaneità attraversata da fragilità e cambiamenti radicali. Un’edizione che coinvolgerà una comunità scientifica di università internazionali, chiamate a collaborare con l’obiettivo di interrogarsi sul ruolo attivo dell’architettura nel pensare e trasformare i luoghi e il lavoro del contemporaneo. Ogni scuola coinvolta identificherà un luogo specifico e una trasformazione significativa in atto nel proprio territorio, con l’obiettivo di sperimentare, attraverso il dispositivo WAVe 2025, il potenziale di nuovi sentieri progettuali: una forma di ricerca costituita da un’intelligenza collettiva, tesa a indagare i processi di trasformazione in atto all’interno di ciascun habitat.

Il lavoro custodisce una dinamica vitale, che l’architettura potrà influenzare soltanto assumendo un ruolo consapevole e attivo nella progettazione dei processi teoricamente fondati. Labor individua Venezia nella sua biografia di città mutante, in grado di assorbire le criticità di spazio e ambiente; un luogo capace di trasformarsi in una officina collettiva internazionale sulla progettualità circolare, intercettando un’attitudine sensibile all’adattamento e alla convivenza con la complessità insita negli habitat più fragili. Una comunità internazionale di scuole di architettura è invitata a progettare nuovamente lo spazio della produzione delle opere e del pensiero, offrendo proposte capaci di interpretare le molteplici geografie culturali del lavoro, le loro nuove ritualità e le aspirazioni custodite nelle tensioni del contemporaneo.

WAVe 2025 alimenterà il confronto tra metodi disciplinari e scuole, contribuendo attivamente al dibattito lanciato dalla Biennale Architettura 2025, proponendo l’Università Iuav di Venezia come un luogo del lavoro attivo, offrendosi come ambito di confronto in simbiosi con la città e la sua storica vocazione alla cultura dello scambio. Una rete di cooperazione capace di restituire, grazie al lavoro di ricercatori e studenti, l’insieme di visioni e anticipazioni generate da una pluralità di metodi e approcci al progetto dei luoghi del lavoro futuri. Lo spazio e il tempo del lavoro, nella cornice attuale della Post-sustainability, saranno al centro di un’azione di pensiero progettante, mirata a intercettare le condizioni e i processi instabili tra uomo e ambiente.

Michel Carlana, Simone Gobbo
Curatori WAVe 2025

Atelier

Bartlett School of Architecture, Londra, Regno Unito

Alberto Campagnoli, Günther Galligioni

Second Nature: Crafted Practices

Mélusine au jardin, progetto di Kollektive Land (Camille Delégue, Günther Galligioni, Martin Koenig) per Lausanne Jardins ‘24. Crediti immagine Claudia Ndebele
Mélusine au jardin, progetto di Kollektive Land (Camille Delégue, Günther Galligioni, Martin Koenig) per Lausanne Jardins ‘24. Crediti immagine Claudia Ndebele

Un’esplorazione pratica della progettazione del paesaggio attraverso il recupero di materiali, il riutilizzo sperimentale e la realizzazione collettiva.

“Nothing should be made by man’s labour which is not worth making; or which
must be made by labour degrading to the makers.”
—William Morris, Art and Socialism, 1884

“Art,”, scriveva Morris, “is man’s expression of his joy in labour”. Al contrario, l’economia del design di oggi - plasmata dall’automazione, dalle piattaforme digitali e dalla produzione meccanizzata - ha allontanato il lavoro dalla creatività, dalla cura e dall’artigianato. Questo workshop recupera il lavoro come atto creativo, ecologico e politico, posizionando l’architettura come un processo di coinvolgimento con materiali, luoghi e comunità. Radicato nel duplice significato di “laboratory”, luogo di lavoro manuale e di sperimentazione, la Natura indaga come i terreni trascurati e di transizione nel territorio di William Morris, nella parte Est di Londra, possano diventare un luogo di sperimentazione architettonica.

Questi spazi trascurati diventano terreni di prova per trasformazioni urbane temporanee e permanenti, dove convergono flussi circolari di materiali, giustizia ambientale e pensiero speculativo. I partecipanti esamineranno come le pratiche di progettazione contemporanee – dalla prototipazione materiale alla fabbricazione digitale – possano attivare risposte collettive ed ecologiche. Oggi i FabLab e le piattaforme open-source hanno ridefinito il laboratorio architettonico come spazio di innovazione democratica, dove tecnologie come la stampa 3D sfidano i modelli industriali e ampliano l’accesso al design. Attraverso una serie di metodi basati sul sito, gli studenti condurranno lavori sul campo, ricerche d’archivio ed esercizi di mappatura per scoprire le biografie materiali e spaziali di questi frammenti urbani.

Ispirandosi al libro “Reciprocal Landscapes” di Jane Hutton, i partecipanti tracceranno le origini, le migrazioni e le storie culturali dei materiali trovati, culminando in un Atlante dei materiali e un modello territoriale collettivo che visualizza gli intrecci ecologici e sociali.

Ogni gruppo identificherà un agente del progetto – umano o non umano – che rifletta le relazioni reciproche tra lavoro, cultura materiale e cambiamenti specifici del sito. Questi agenti guideranno lo sviluppo di interventi speculativi e situati, come follie architettoniche, installazioni artistiche o dispositivi per l’ambiente pubblico, basati sulla creazione collettiva e sulle esigenze della comunità.

I materiali di scarto e i sottoprodotti industriali selezionati serviranno sia come componenti fisici che come motori concettuali. I partecipanti si impegneranno in due percorsi paralleli: la riproposizione dei materiali attraverso la prototipazione digitale e il loro utilizzo come catalizzatori per ripensare la circolarità e l’innovazione. Lavorando con frammenti di scarto, il workshop apre nuove possibilità per un design sostenibile e sensibile al sito. Il processo culmina in un prototipo 1:1 - un pezzo di prova fisico che incarna i temi del workshop di trasformazione, cura e paternità condivisa. Second Nature propone un ripensamento dell’architettura come collettivo interdisciplinare, rimodellando lo spazio pubblico attraverso il riutilizzo di materiali di recupero, l’impegno sociale e approcci sperimentali.

Collaborators
Taokai Ma, Charlotte Wong, Georgina Standerwick

Bauhaus-Universität Weimar, Germania

Christian Felgendreher, Christina Köchling

Trouble in Paradise

Grandi magazzini abbandonati. Crediti immagine Seph Lawless
Grandi magazzini abbandonati. Crediti immagine Seph Lawless

Lavorare all’interno delle città ha il vantaggio di avere distanze ridotte. La digitalizzazione consente di lavorare da casa.

Gli uffici si stanno svuotando. I progetti residenziali si avvicinano ai quartieri commerciali. La produzione industriale su piccola scala sta tornando nei centri. I confini tra ambiente di lavoro e spazio abitativo continuano a confondersi. I centri urbani monofunzionali sono deserti dopo la chiusura dei negozi.

La costruzione di grandi magazzini ha avuto un ruolo importante nella ricostruzione delle città della Germania occidentale nel dopoguerra. Ma non sono magnifici come i predecessori storici in stile Art Nouveau. I grandi magazzini degli anni ‘60 e ‘70 si distinguono per le loro enormi dimensioni e per le facciate chiuse e prive di relazione con il contesto urbano. Le strutture in calcestruzzo armato profonde e non esposte sono spesso situate in un luogo pubblico centrale, fiancheggiato da un garage e dotato di una zona di circolazione rappresentativa. Questa tipologia rimane come una rovina di un’epoca passata di shopping in centro. I grandi magazzini vuoti vengono spesso demoliti e raramente trasformati. Per catturare l’energia incorporata degli edifici e utilizzarla come risorsa costruttiva, è necessario esplorare i potenziali di conversione. Le strutture robuste spesso offrono carattere architettonico e potenzialità spaziali, con ampie campate e generose altezze dei soffitti.

Le conversioni a uso misto creano una dinamica che può avere un impatto diretto sullo sviluppo urbano del quartiere adiacente denominato twentyfourseven. Per un edificio a uso misto sostenibile e flessibile è necessario garantire una pari esposizione e una ventilazione naturale.

Qual è la profondità appropriata dell’edificio per ottenere la massima apertura d’uso? Le funzioni a uso misto richiedono strategie di conversione diverse o una precisa misura architettonica può garantire la massima flessibilità per le varie funzioni? È possibile sviluppare idee architettoniche specifiche attraverso il riutilizzo di materiali nello stesso edificio?

Il nostro obiettivo è quello di esplorare i grandi magazzini dal punto di vista tipologico, esaminando diverse strategie di progettazione per una serie di grandi magazzini abbandonati in Germania, alla ricerca di potenziali qualità che possono essere raggiunte attraverso la conservazione. Verranno testate diverse strategie e programmi di conversione in pianta e in sezione. Gli aspetti chiave del progetto saranno identificati, selezionati e costruiti in modelli su larga scala.
L’approccio ludico e la bellezza dei prodotti intendono ispirare l’entusiasmo per la trasformazione di questi edifici e produrre immagini di fiducia. Le rovine ispirano visioni del futuro.

Collaborators
Johannes Olfs

CEPT University, Ahmedabad, India

Smit Vyas

The Work of Architecture and the Architecture of Work

Collage di Smit Vyas
Collage di Smit Vyas

Fondata su una storia plasmata da un lavoro sostenuto e intensivo, Venezia oggi esiste paradossalmente soprattutto come costrutto filosofico, che offre una gratificazione estetica immediata piuttosto che una vitalità urbana funzionale. Le crescenti pressioni del turismo di massa e dello sfruttamento consumistico intensificano gli appelli alla sua conservazione, spesso attraverso strategie che rischiano di ridurla a un artefatto statico e museale. Per molti versi, la traiettoria di Venezia sotto le forze del tardo capitalismo può servire come microcosmo di futuri globali più ampi. In questo contesto, il workshop si chiede: quali ruoli potrebbero assumere il lavoro e l’architettura nel concettualizzare ambienti di lavoro che possano resistere e reindirizzare in modo significativo le condizioni attualmente in atto?

Per uno strano scherzo del destino, parti di Venezia e della città medievale di Ahmedabad (anch’essa originariamente una sorta di isola) sono riunite in un arcipelago all’interno di uno scenario futuristico. Il centro storico di Ahmedabad è costituito da insediamenti Pols che sono densamente popolati, con strade strette, ingressi nascosti e cortili interni. Omologamente paragonabili al modello insediativo di Venezia, entrambi si sono sviluppati come risposta strategica a minacce geopolitiche che da tempo non esistono più. Il workshop rivisiterà le loro morfologie, collocandole in una situazione post-apocalittica, che può forse liberare l’architettura dei Pols e i Sestieri dallo sguardo stereotipato per acquisire un nuovo significato.

I partecipanti formuleranno relazioni corpo-lavoro-costruzione di fronte a crisi prevalentemente ambientali, ma anche culturali e politiche. Gli studenti di architettura, in quanto agenti di questa trasformazione, utilizzeranno i frammenti superstiti dell’arcipelago, costituiti da un Pol e dagli edifici scolastici intorno a Dorsoduro, per realizzare le loro azioni architettoniche. L’infrastruttura residua del passato sarà il nuovo sito di mediazione architettonica, in quanto gli studenti esploreranno gli spazi di lavoro mettendo a confronto le vestigia delle vecchie tipologie edilizie, le forme e i materiali con quelli di nuova introduzione. Ogni intervento funzionerà non solo come proposta architettonica, ma anche come unità produttiva, generando risorse essenziali come cibo, acqua, energia, stazioni igieniche e infrastrutture sanitarie.

Gli interventi emergeranno da imperativi di sopravvivenza, ma saranno anche segnati da strategie di sovversione, recupero e riappropriazione. Il corpo cumulativo del lavoro sarà assemblato come un cadavere squisito, abbracciando la disgiunzione e la collettività come strumenti generativi. Il workshop perseguirà un idioma architettonico appropriato a una condizione di lavoro riconfigurata, in cui il soggetto architettonico abita simultaneamente i ruoli di lavoratore, coltivatore e artista. Il suo impegno con le urgenti questioni ecologiche funzionerà come una critica della separazione capitalista tra il lavoro – come lavoro mercificato e alienato – e il lavoro come pratica incarnata ed esistenziale.

École d’architecture de la ville & des territoires Paris-Est, Francia

Jean Benoît Vétillard

Arts et Metiers (Arti e Mestieri)

Immagine tratta da Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Diderot e D’Alembert, XVIII secolo.
Immagine tratta da Encyclopédie ou Dictionnaire raisonné des sciences, des arts et des métiers, Diderot e D’Alembert, XVIII secolo.

Nel XVIII secolo, gli scrittori e filosofi Denis Diderot e Jean Le Rond D’Alembert pubblicarono la prima opera enciclopedica francese, l’Encyclopédie raisonné des sciences, des arts, et des métiers. Quest’opera immensa raccoglieva tutto il sapere dell’epoca e, sulla scia delle teorie di Copernico, Galileo e Newton, segnava una rivoluzione nel modo di rappresentare il mondo e una forte critica alle autorità spirituali dell’epoca. Questa Enciclopedia - che sarà il punto di partenza del nostro studio - segnò l’inizio del secolo dei Lumi.

Sotto l’impulso del re, l’Encyclopédie divenne anche un supporto per lo sviluppo industriale e artigianale, con più di 250 mestieri documentati e raffigurati in incisioni dettagliate. Le nozioni di standardizzazione applicate alla scala di un popolo e di razionalità sono qui illustrate e teorizzate. La progettazione degli spazi di lavoro attraverso l’architettura e degli strumenti di produzione attraverso il design sta diventando una questione economica fondamentale e strategica; deve funzionare.

L’architettura e il design sono strumenti per pensare il lavoro, un fattore efficace che dovrebbe portare a un uso efficiente. Dal XVIII secolo, il design singolare ha lasciato il posto al design generico.

ARTS ET METIERS, il nostro studio propone di interrogare collettivamente il contenuto di questa enciclopedia descrittiva e di affrontare oggi la nozione di lavoro e il suo spazio, la sua mutazione, la sua rappresentazione, secondo tre scale: l’ attrezzo, il workshop, la collettività:

Lo Attrezzo / Il Gesto
Comprendere gli strumenti di produzione descritti in queste tavole grafiche enciclopediche. L’analisi sarà condotta attraverso lo studio dei dettagli costruttivi, dei disegni assonometrici e dei modelli in scala 1/1.

L’officina / Lo spazio
Estrapolazione formale di questi strumenti negli spazi di lavoro. Creando micro-architetture (o cellule) ispirate a vecchi mestieri, che definiscono nuovi usi contemporanei. Questa fase mette in discussione con forza la nozione di ergonomia e comfort.

Trasmissione / La comunità
Definizione di una comunità di pratiche (scambio di know-how, materiali e conoscenze) all’interno di una struttura spaziale condivisa.
A cavallo tra la sfera culturale e quella economica, il nostro laboratorio si interroga sul rapporto tra design/architettura/uso e la sua rappresentazione; se la bellezza è solo frutto dello spirito dell’immaginazione, allora lo spirito con cui le cose sono fatte ha la precedenza.

Collaborators
Diego Perini

Feng Chia University, Taichung City, Taiwan

Lorena Alessio

“Work” as activating element in the city. Commercial activities and street vitality

Porta dell'Università Feng Chia e strada Wenhua. Crediti immagine Lorena Alessio
Porta dell’Università Feng Chia e strada Wenhua. Crediti immagine Lorena Alessio

L’area di Feng Chia a Taichung è una zona molto conosciuta per il suo mercato notturno e per la presenza del campus della Feng Chia University (FCU).
La memoria collettiva dell’area la rende un luogo molto importante di Taichung. Le persone hanno sviluppato un forte affetto per i negozi e le attività; l’affetto è maturato in diverse generazioni. È legato ai ricordi e alla condivisione del tempo da bambini, studenti, genitori e anziani.
Gli isolati che si affacciano sulla parte sud del campus FCU presentano stradine molto vivaci, caratterizzate da piccoli negozi, venditori temporanei e dal mercato notturno.

La qualità del design degli edifici e delle bancarelle temporanee si basa sulla funzionalità e sulla visibilità. Pubblicità, immagini, scritte e manifesti dominano la vista.

La maggior parte degli edifici o delle bancarelle delle attività sopra citate non segue alcuna regola o pensiero nella composizione architettonica.
C’è qualità nella libertà di espressione e nel simbolismo.

La frammentazione urbana in piccoli appezzamenti di terreno permette il posizionamento di negozi medio-piccoli di proprietà di diversi proprietari; molti di essi sono a conduzione familiare. E Taiwan, come altre città asiatiche, ha la peculiarità della presenza di negozi temporanei, che rispondono a esigenze specifiche in base agli orari giornalieri. Questo fatto è accentuato in luoghi specifici della città, come quello vicino all’Università Feng Chia di Taichung.
La proposta del workshop WAVe 2025 considera l’area intorno all’Università Feng Chia come un importante punto di riferimento per la ricerca, con lo sguardo rivolto a nuovi modelli di sviluppo.

A causa dell’elevato numero di studenti, le aree circostanti Feng Chia hanno di volta in volta modellato l’offerta commerciale in base alle esigenze degli studenti. Le attività commerciali quotidiane sono legate alla presenza dell’università. Un contributo importante è dato dai venditori temporanei. I venditori temporanei si posizionano davanti ai negozi, generalmente sotto i portici. Si differenziano durante il giorno: al mattino ci sono venditori che vendono la colazione, mentre i negozi sono generalmente chiusi; all’ora di pranzo compaiono altri venditori, mentre dietro i negozi iniziano ad aprire; nel pomeriggio i venditori temporanei scompaiono, ma prima delle 18:00 ne arrivano altri: preparano il mercato notturno. Anche la vita notturna diventa un’attività molto importante che si svolge nelle strade. Le aree commerciali si mescolano ai mercati e ai mercati notturni.

Il sito
Il sito scelto per il workshop si trova al confine sud tra la FCU e Wenhua Road. Si tratta di un’area molto viva. Potrebbe diventare uno spazio cruciale di interazione tra l’università e la città. Ecco le condizioni poste per ripensare l’area:
– Demolire il muro che delimita l’area privata della FCU;
– Trasformare Wenhua Road in una strada pedonale;
– Trasformare l’attuale parcheggio e la strada in un’area pedonale;
– Creare uno spazio pubblico aperto;
– Mescolare attività esistenti e nuove.
Il sito è suddiviso in 5 aree. Diversi gruppi lavoreranno su aree diverse, finalizzando le proposte che saranno interconnesse tra loro.

Collaborators
Kong-Ki Wong

ITESO, Universidad Jesuita de Guadalajara, Messico

Sandra Valdés Valdés, Pedro Alcocer Santos

Forest Lotto: Archetypes as a design Methodology

Lotto del Bosque. Crediti immagine Pedro Alcocer Santos
Lotto del Bosque. Crediti immagine Pedro Alcocer Santos

Questo workshop nasce dall’esigenza di riflettere su tre questioni interconnesse legate a “Labor”. La prima, di carattere sociale, riguarda gli effetti dello spostamento globale e urbano su specifici modi di vita: da un lato, il ritorno forzato dei migranti espulsi dagli Stati Uniti; dall’altro, l’arrivo dei nomadi digitali nell’area metropolitana di Guadalajara, la cui presenza ha fatto lievitare i prezzi degli alloggi, spostando le comunità locali e rendendo quasi impossibile l’accesso alla città per i giovani.

La seconda questione è ecologica: il deterioramento della Primavera Forest Biosphere Reserve, adiacente alla città, avviene a causa dell’espansione urbana, dell’agricoltura industriale e della frammentazione territoriale.

La terza è metodologica: come insegnare la progettazione architettonica a partire da un’etica della cura, da una profonda comprensione del paesaggio e da una pratica che affronti problemi reali.

Per integrare la metodologia di lavoro e i vari elementi del sito, utilizziamo il lotto, collegando gli archetipi forestali con le tipologie architettoniche in un esercizio collettivo di interpretazione territoriale.

La città di Guadalajara, incastonata tra La Primavera Forest e Huentitán Canyon ha raddoppiato la sua impronta urbana negli ultimi due decenni, senza un aumento proporzionale della popolazione. Questa espansione ha messo sotto pressione gli ecosistemi circostanti. Storicamente, gli insediamenti ai margini della foresta hanno beneficiato dei suoi servizi ambientali: acqua, clima temperato e terreni fertili. Tuttavia, l’abbandono delle campagne da parte delle giovani generazioni che inseguono il sogno migratorio, unito all’avanzare dell’agricoltura industriale, ha eroso i modi tradizionali di abitare questo territorio.
In questo contesto di tensioni territoriali, lo studio propone sia una riflessione che un’azione situata. La proposta si sviluppa nell’ambito del progetto “Anillo Primavera”, un’iniziativa accademica, territoriale e di NGO che cerca di reimmaginare il confine tra la città e la foresta come uno spazio di conservazione. Questo anello circonda La Primavera Forest e la collega agli insediamenti umani che storicamente dipendono da essa per l’acqua, il cibo, il clima e il senso del paesaggio.
“Anillo Primavera” è concepito come un laboratorio a cielo aperto, dove studenti, comunità, tecnici, artisti e scienziati collaborano per immaginare nuovi modi di abitare il margine. È riconosciuto come un territorio fragile e simbolico, attraversato da molteplici scale temporali: quella dell’antica foresta, della crescita urbana accelerata, del ritorno dei migranti e della cura lenta e rigenerativa. Di fronte alla minaccia della frammentazione ecologica e della disconnessione sociale, il progetto propone una forma di lavoro che va oltre la produzione di architettura.

Questa metodologia prende forma attraverso l’uso del lotto, uno strumento concettuale, territoriale e pedagogico. In italiano, lotto significa un appezzamento di terreno, ma si riferisce anche a un gioco. Lo studio attinge da entrambi i significati e li collega alla tradizione messicana della lotería. Ogni studente riceve un lotto attraverso un’estrazione non casuale ma simbolica: ogni porzione di territorio è associata a un archetipo di foresta - una lente attraverso cui pensare al design. In questo modo, il workshop trasforma la logica del gioco in una metodologia critica: il caso distribuisce terra, ma anche responsabilità, memoria e desiderio.

Gli archetipi - organizzati in categorie come fauna, flora, connettività biologica, servizi ambientali, identità culturale o minacce - sono strumenti di riflessione. Ogni progetto, quindi, non risponde semplicemente a una funzione, ma è radicato in un fenomeno, un ritmo, un senso d’urgenza o una poetica.

I lotti sono organizzati in cluster, ispirati alla figura del monastero; questi cluster combinano vita condivisa, contemplazione, lavoro e sperimentazione. Ogni cluster comprende tipologie come chiostri, foresterie, cappelle, spazi di coworking, centri di rigenerazione ambientale o refettori che configurano un’architettura che oscilla tra ritiro e incontro, produzione e pausa, permanenza e transito.

In un’epoca in cui i modelli urbani dominanti minacciano l’equilibrio ecologico, sociale e culturale, questa esperienza di workshop si propone come un modo alternativo di intendere l’architettura come una forma di lavoro che influenza altri lavori: non come oggetto, ma come relazione; non come prodotto, ma come processo.

School of Architecture at the Central Academy of Fine Arts (CAFA), Beijing, Cina

Wang Xiaohong

The Evolution of Labor Spaces in China

Tulou. Crediti immagine Xi Zhang
Tulou. Crediti immagine Xi Zhang
  1. Tradizione e innovazione
    Nel “Wild Tulou” abbandonato e crollato della contea di Yongding, nella provincia del Fujian, del quale rimangono solo rovine, si sta cercando di ricostruire la vitalità della comunità e le tradizionali relazioni familiari e di vicinato.
  2. Home Office del freelance
    Il paradigma dell’Home Office per i freelance rappresenta un modello di lavoro decentralizzato, reso possibile da Internet e dalle moderne tecnologie di comunicazione. Pur offrendo i vantaggi fondamentali della flessibilità degli orari e dell’autonomia professionale, questa modalità richiede un’eccezionale autodisciplina da parte dei professionisti.
  3. Ecosistema di imprenditorialità giovanile su base comunitaria
    Questo sistema di innovazione collaborativa trasforma i villaggi urbani attraverso il riuso adattativo di strutture storiche in centri di co-working. Esso, creando pool di risorse fisico-digitali, riduce le barriere imprenditoriali e rivitalizza i quartieri attraverso: 1) la formazione di team interdisciplinari; 2) la conversione di risorse iperlocali (proprietà sfitte → incubatori di innovazione); 3) l’impegno intergenerazionale della comunità.
  4. Ostelli-luoghi di lavoro per nomadi digitali
    Rivolti a professionisti indipendenti dal luogo, questi complessi di co-living immersi nella natura integrano postazioni di lavoro e servizi di ostello in regioni panoramiche (ad esempio, Dali, Cina; Chiang Mai, Thailandia; Bali, Indonesia). Le strategie architettoniche combinano: 1) sistemazioni per soggiorni di lunga durata a costi contenuti; 2) pianificazione spaziale orientata al paesaggio; 3) infrastrutture per la costruzione della comunità (sentieri escursionistici, arene per la condivisione delle competenze).
  5. Hub di lavoro urbano del terzo spazio (modello Internet-Coffee)
    Reimmaginando gli spazi di consumo urbani come ambienti ibridi di lavoro e sociali, questo modello sinergico combina: 1) postazioni di lavoro gratuite abilitate al WiFi; 2) immersione culturale locale (integrazione del commercio al dettaglio artigianale); 3) sistemi intelligenti di condivisione degli spazi (piattaforme di prenotazione potenziate con AR). Le implementazioni avanzate utilizzano i principi dell’economia circolare attraverso programmi di scambio di crediti di carbonio e l’interoperabilità dell’ecosistema associativo.
  6. Studi di co-working in live-streaming
    Questi spazi iperconnessi reinventano i luoghi di intrattenimento come siti di produzione collaborativa per il live-commerce, l’e-learning e il social gaming. Le caratteristiche architettoniche principali includono: 1) studi immersivi con più telecamere; 2) zone di partecipazione del pubblico con interfacce AR/VR; 3) aree di supporto alla creazione di contenuti nel backstage.
  7. Campus aziendali di nuova generazione (Lounge-Centric Headquarters)
    La riprogettazione del salotto del quartier generale di Internet integra concetti di ufficio all’avanguardia che incarnano collettivamente le tendenze future di “centralità umana, design ecologico e innovazione intelligente”. Oltre a superare il tradizionale layout chiuso degli edifici per uffici, esso ristruttura gli spazi di lavoro aziendali in campus verticali attraverso zone interconnesse. Questi spazi ospitano funzioni culturali, sanitarie e di condivisione delle conoscenze, sfruttando al contempo i progressi tecnologici per ridefinire i luoghi di lavoro moderni.
Collaborators
Ershuo Fan, Xi Zhang

School of Architecture La Salle Barcelona (ETSALS), Spagna

Josep Ferrando, Francisco Cifuentes

The Evolution of the Workspace: From the Larkin Building to the Diffuse Space

Una montagna di traversine ferroviarie. Science Museum Group © Hulton Archive
Una montagna di traversine ferroviarie. Science Museum Group © Hulton Archive

Nel corso della storia, lo spazio di lavoro ha rispecchiato i paradigmi economici, tecnologici e sociali del suo tempo. La sua trasformazione può essere compresa attraverso tre fasi architettoniche chiave: spazio centralizzato, spazio nomade e spazio diffuso.

Spazio centralizzato: efficienza e gerarchia
Il Larkin Building (1904), progettato da Frank Lloyd Wright, segna una pietra miliare nell’architettura degli uffici. Concepito come una “macchina per l’efficienza”, rispondeva al modello di produzione fordista con illuminazione generale, ventilazione controllata, mobili integrati e spazi aperti progettati per la supervisione e la produttività. L’ufficio divenne uno spazio unico e centralizzato, strutturato secondo chiare gerarchie. Tuttavia, con l’avvento della globalizzazione e delle tecnologie digitali, questo modello rigido avrebbe presto dovuto affrontare nuove sfide.

Spazio nomade: flessibilità e mobilità
A partire dagli anni ’90 del Novecento, le tecnologie digitali - laptop, Wi-Fi, server remoti - hanno iniziato a spostare il lavoro da una sede fissa. Questo ha dato vita a nuovi ambienti di lavoro, come i caffè con accesso a Internet, i primi telelavoratori e gli spazi di coworking. L’architettura ha risposto con layout di uffici flessibili, postazioni di lavoro condivise e una maggiore mobilità interna. Aziende come Google e Facebook hanno reimmaginato lo spazio di lavoro con ambienti informali, integrando aree relax e caffè per favorire creatività e collaborazione. Il coworking, in particolare, ha ridefinito il senso di appartenenza a un luogo di lavoro. Questi spazi sono stati progettati intorno alla comunità e all’interazione, con layout adattabili che rispondono a diverse esigenze lavorative.

Spazio diffuso: ibridazione fisico-digitale
Oggi lo spazio di lavoro è sempre più diffuso con confini sempre più labili tra vita personale e professionale e tra ambienti fisici e virtuali. La pandemia di COVID-19 ha accelerato questo cambiamento, consolidando modelli di lavoro ibridi che combinano la presenza in ufficio con quella a distanza. Gli uffici vengono ora ridefiniti come centri di incontro, collaborazione e interazione sociale, piuttosto che come luoghi di lavoro individuale a scrivania fissa.

L’architettura ha risposto riducendo l’ingombro degli uffici tradizionali, incorporando elementi di design domestico e digitalizzando gli ambienti di lavoro. La casa è diventata un’estensione dello spazio di lavoro, portando a progetti residenziali che includono home offices, cabine insonorizzate per le videochiamate e arredi ergonomici. Allo stesso tempo, gli spazi di coworking stanno riemergendo nelle aree suburbane e nelle città di medie dimensioni, migliorando la qualità della vita e riducendo l’impatto ambientale del pendolarismo.

Conclusioni del workshop
Questa evoluzione rappresenta una sfida importante per l’architettura: progettare ambienti ibridi che armonizzino lo spazio fisico e digitale, permettendo al lavoro di adattarsi alla vita e non viceversa. L’ufficio non è più un luogo singolo, ma una rete di esperienze distribuite. Il futuro dell’architettura degli spazi di lavoro sarà definito da una maggiore integrazione tra i contesti urbani e digitali, da edifici intelligenti in grado di rispondere a esigenze mutevoli e da sistemi che promuovono il benessere e la sostenibilità. Per gli architetti si apre uno spazio di indagine e innovazione in cui flessibilità, identità ed efficienza devono coesistere in nuove forme spaziali.

Thomas Jefferson University, Philadelphia, Pennsylvania, Stati Uniti d’America

David Breiner, Lisa Phillips, Renee Walker

Prioritizing Laborers in a Tech-Driven World: A Philadelphia Perspective

Meccanico al cantiere navale di Philadelphia, 1935 ca. Crediti immagine Claude Alexander — Fotografo (1935 circa). Cantiere navale di Philadelphia. Per gentile concessione della Free Library di Philadelphia, collezione di stampe e immagini
Meccanico al cantiere navale di Philadelphia, 1935 ca. Crediti immagine Claude Alexander — Fotografo (1935 circa). Cantiere navale di Philadelphia. Per gentile concessione della Free Library di Philadelphia, collezione di stampe e immagini

Situato all’interno del contesto storicamente stratificato del Philadelphia Navy Yard - un luogo inserito all’interno dell’eredità industriale e marittima della città - questo studio interroga l’evoluzione degli ambienti incentrati sul lavoro attraverso tipologie spaziali adattive. Con un occhio critico alla storia dell’architettura industriale e alle forme del luogo di lavoro, gli studenti si impegneranno in un’indagine speculativa ma fondata sul luogo di lavoro come dinamico costrutto socio-architettonico. Lo studio considera il luogo di lavoro non solo come un sito di produzione, ma come un apparato spaziale plasmato dai mutevoli paradigmi tecnologici, dagli imperativi sostenibili e, soprattutto, dalle esperienze vissute dei lavoratori. L’accento è posto sulla tensione tra le infrastrutture tradizionali e le modalità emergenti di lavoro, con particolare attenzione ai rituali dei lavoratori all’interno degli ambienti modellati dalle trasformazioni post-industriali.
Gli studenti si confronteranno con il patrimonio industriale di Philadelphia – che include il settore tessile, il trasporto marittimo e i macchinari pesanti - tracciandone l’evoluzione insieme all’ascesa dell’automazione, della fabbricazione digitale e delle infrastrutture energetiche alternative. Tuttavia, questo studio contrasta un approccio esclusivamente incentrato sulla tecnologia. Ogni progetto deve integrare almeno un elemento a basso contenuto tecnologico e sensoriale, che si concentri sul benessere, la fisicità e l’autonomia dell’uomo. Questi elementi analogici possono riguardare il comfort termico, il sollievo acustico, la pulizia, il riposo o la coesione sociale - sottolineando che l’innovazione nella progettazione dei luoghi di lavoro può anche essere intuitiva e fondata sulla materia.

Una componente vitale dello studio è costituita da rigorose analisi delle condizioni che interrogano le realtà multisensoriali e ambientali degli spazi lavorativi. Gli studenti esamineranno i fattori che modellano l’esperienza quotidiana del lavoratore tra cui: i paesaggi sonori; le fluttuazioni termiche; i movimenti ripetitivi i rischi per la sicurezza; e altro ancora. Queste indagini si estendono anche alle dimensioni psicologiche e motivazionali, con attenzione a come la progettazione ambientale favorisca la vigilanza, la resilienza e lo scopo. Impegnandosi in queste dinamiche complesse e incarnate, gli studenti possono comprendere come lo spazio possa favorire il benessere dei lavoratori.

Il semestre culmina in una celebrazione pubblica in cui uno o più elementi in scala reale possono essere costruiti e messi in mostra, rafforzando la convinzione dello studio che il futuro del lavoro deve rimanere radicato nel prendersi cura dell’essere umano.

Durante il processo di progettazione, gli studenti devono considerare le realtà fisiche, emotive e sensoriali del lavoratore - non come un utente astratto, ma come un protagonista centrale. I progetti devono riconoscere i ritmi quotidiani del lavoratore, le sue esigenze di riposo e il suo desiderio di dignità. Piuttosto che progettare intorno all’uomo, questo studio sfida gli studenti a progettare per e con l’uomo nella mente, creando ambienti in cui l’esperienza del lavoratore è primaria. In questo modo, lo studio riflette sul lavoro moderno non solo come una funzione di produttività, ma come una pratica vissuta e incarnata che merita empatia, attenzione e cura da parte dell’architettura.

TU Delft, Faculty of Architecture and the Built Environment, Paesi Bassi

Georg Vrachliotis, Stefano Corbo, Angela Rout, Yağiz Söylev

The New Fundamentals: Time, Labour, and the Architecture of the Future

Ter Laak Orchids, interni di una serra. Wateringen, Paesi Bassi. Copyright Ter Laak Orchids
Ter Laak Orchids, interni di una serra. Wateringen, Paesi Bassi. Copyright Ter Laak Orchids

Dal dopoguerra a oggi, l’architettura è entrata e uscita dall’attenzione - soggetta alle maree dei cambiamenti economici, dei climi culturali e delle transizioni tecnologiche. Oggi, tra la convergenza degli strumenti digitali, l’urgenza climatica e la governance algoritmica, l’architettura si trova ancora una volta a un punto di svolta. Tuttavia, ciò che contraddistingue la nostra condizione attuale non è solo una questione di cosa costruiamo, ma di quando e di come il tempo stesso viene riorganizzato.

I regimi temporali contemporanei confondono i confini un tempo stabili. Da un lato, l’attuale ibridazione dei modelli di lavoro ha incrinato la convenzionale sincronia tra luogo e produzione; dall’altro, la proliferazione di nuovi media e modalità di partecipazione ha generato distorsioni temporali e forme anomale di lavoro.

Mentre il tempo e il lavoro vengono ridisegnati, l’architettura deve rispondere con nuove forme di immaginazione civica. I valori fondamentali della cura, della reciprocità, della flessibilità e della negoziazione, così profondamente radicati nel contratto sociale olandese, possono fornire un quadro potente per ripensare le basi della pratica architettonica e il suo ruolo sociale.

Questo workshop esplorerà l’intreccio tra tempo, lavoro e spazio, concentrando l’attenzione sul contesto dei Paesi Bassi e, più in particolare, indagando uno dei settori più emblematici del Paese: l’industria floricola. Tulipani, gladioli, narcisi, gigli, giacinti: ogni anno i Paesi Bassi producono circa 1,7 miliardi di fiori recisi, che rappresentano circa il 60% del commercio globale. Il Paese non è solo il più grande esportatore di fiori al mondo, ma anche il secondo importatore a livello globale.

Questa posizione dominante è accompagnata da una molteplicità di spazi e strutture che rendono possibile la produzione, la distribuzione e la consegna dei fiori: serre, strutture di stoccaggio, centri di distribuzione e magazzini. Il workshop indagherà questi spazi — il loro impatto urbano e ambientale, la loro organizzazione interna, le forme di lavoro umano e non umano che si svolgono al loro interno — per immaginare la loro trasformazione fisica e simbolica in infrastrutture civiche. L’area di Westland, nel sud dei Paesi Bassi, sarà scelta come caso di studio.

Costruire in modo diverso significa pensare in modo diverso: al tempo, al lavoro e, in ultima analisi, al futuro condiviso che vogliamo costruire. Gli architetti non sono solo progettisti di spazi, ma curatori delle infrastrutture temporali e sociali che sono alla base della società civile. Formalizzando questi nuovi valori nell’ambiente costruito, possiamo contribuire a creare architetture che non si limitino a riflettere il presente, ma che diano attivamente forma a futuri più giusti e umani.

Il workshop sarà strutturato in tre fasi, che si tradurranno in tre risultati specifici: una cartografia o mappatura del tempo, che illustra la ricerca che gli studenti condurranno sul settore della floricoltura; un disegno speculativo collettivo, che rappresenta aspetti spaziali ed etnografici del contesto olandese; e una serie di modelli fisici che formano un’installazione architettonica composita.

Università Iuav di Venezia, Italia

Roberta Albiero, Arabella Guidotto

Otium et labor: il progetto come tempo abitato

Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1474-75, © National Gallery, London
Antonello da Messina, San Girolamo nello studio, 1474-75, © National Gallery, London

Nel progetto architettonico, otium e labor non sono polarità contrapposte ma componenti inscindibili di un unico processo. I due termini si intrecciano dove il pensiero si fa gesto e il gesto si fa pensiero. Così come labor non indica una mera operatività, l’otium non è semplice inattività: entrambi costituiscono il tessuto vivo di un fare che è sempre anche un pensare che prende corpo attraverso l’azione.

Nel contesto contemporaneo dominato da logiche di accelerazione, produzione incessante e standardizzazione dei processi, riflettere sul senso dell’otium rappresenta un atto critico, una forma di resistenza culturale ed etica di fronte alla perdita della dimensione qualitativa e relazionale del progetto. Otium significa allora rimettere al centro la densità del tempo, la profondità dello sguardo, la dignità del fare.

Ogni atto progettuale autentico nasce dall’incontro tra otium e labor. Il primo non precede né segue semplicemente il secondo: lo attraversa, lo nutre, ne costituisce l’anima riflessiva. Il labor, dal canto suo, fornisce al pensiero la resistenza della materia, la concretezza del fare, l’occasione di confronto con la realtà. Così, il disegnare e il costruire diventano pratiche cognitive, atti di conoscenza incarnata.

In questa prospettiva, l’otium si manifesta come una qualità del tempo che rallenta, ascolta, lascia spazio all’incertezza e all’errore. È ciò che permette al progetto di maturare, di trasformarsi, di non ridursi a una sequenza di soluzioni precostituite. In architettura, pensare è già fare, e fare è già pensare: non esistono fasi distinte, ma un continuo movimento tra attenzione e azione, tra sospensione e decisione. Il progetto non è allora un processo lineare, ma un campo di possibilità, un gesto che prende posizione rispetto al mondo.

Il workshop propone la sperimentazione di uno spazio di otium attivo: un tempo liberato dall’urgenza del risultato, dedicato alla ricerca, all’ascolto del luogo, alla sperimentazione del disegno, della parola, del modello. Lo studio si fa esplorazione ed esperienza trasformativa.

Attraverso un progetto di autocostruzione con gli studenti, un cantiere lento e condiviso, si sperimenteranno modalità operative in cui cervello e mano lavorano insieme, e nelle quali il tempo è funzione della necessità interna del processo. Ogni decisione, ogni dettaglio è generata dal continuo dialogo tra pensiero e materia, tra intenzione e ascolto.

Non atto meccanico ma pratica di attenzione, di presenza, di cura. In questo ascolto profondo, l’otium si annida dentro il fare: è il tempo necessario per vedere davvero ciò che si sta facendo, per abitare il processo.

In un’epoca in cui anche il progetto rischia di ridursi a simulazione, a output parametrico o a prodotto di mercato, l’otium riemerge come un atto radicale di rallentamento, di restituzione al progetto della sua dimensione etica, poetica, politica. L’otium ci ricorda che l’architettura non nasce da automatismi produttivi, ma da uno sguardo attento e partecipe sul mondo. Che costruire non è solo risolvere, ma porsi domande. Che il tempo abitato intensamente è l’unico da cui può nascere un’architettura significativa.

Collaborators
Federico Muratori, Elisa Plank e la partecipazione speciale di Giovanni Mucelli

Università Iuav di Venezia, Italia

Michel Carlana

Perpetua. The Work of Time

Armin Linke, AVN_002304_2, Ettore Sottsass, modello di casa in Lego nel suo studio, Milano, Italia, 1999. Crediti immagine Armin Linke
Armin Linke, AVN_002304_2, Ettore Sottsass, modello di casa in Lego nel suo studio, Milano, Italia, 1999. Crediti immagine Armin Linke

Se, per un istante, si provasse a pensare all’architettura non solo come a un’arte capace di fornire spazi per l’umanità, ma come a un prodotto, potrebbe risultare più semplice vedere con maggiore lucidità e appropriata distanza il tema del “processo”, inteso come uno dei momenti più importanti della disciplina architettonica su cui riflettere al giorno d’oggi. Il ciclo di produzione dell’architettura ha subìto nel corso della storia diversi momenti che hanno condizionato in modo preponderante gli esiti stessi dell’edilizia, della forma, dello spazio, del linguaggio e del significato. Volersi rioccupare di questi importanti aspetti, in un tempo in cui la produzione dei materiali e lo smaltimento degli stessi sembrano essere una reale problematicità, potrebbe aiutare a percorrere una traiettoria di ricerca. Questa da sempre ha contraddistinto degli specifici periodi storici negli ambiti della costruzione e del “lavoro” che l’architettura genera. Considerare la circolarità di questa materia secondo un andamento “perpetuo”, non solo in termini di riuso ma anche in termini spaziali, compositivi e lessicali, potrebbe aiutare a riprendere dimestichezza con alcuni temi dell’antichità quali quello del riuso e della spolia, una parola quest’ultima che ha caratterizzato il nostro Paese consentendo delle importanti riflessioni sul concetto di memoria.

L’approccio proposto per il WAVe 2025 si configura attraverso due fasi disciplinari, raccolte poi in un unico progetto editoriale: accanto allo studio di opere emblematiche sul tema della spolia contemporanea, si inserisce una ricerca legata alle possibili configurazioni spaziali per i luoghi del “dopolavoro” costruiti con elementi architettonici di recupero. Work-After-Work è la denominazione adottata per questa specifica sperimentazione, applicata ai luoghi della collettività e realizzati attraverso un lavoro circolare. La volontà è quella di evidenziare come la ciclicità dei materiali sia profondamente radicata nella nostra cultura e di come sia possibile applicarla partendo da architetture di uso comune. La spolia ha interessato diversi campi di indagine, testimoniando come un materiale con una storia pregressa possa incrementare il valore di un’opera. La progettazione architettonica potrà quindi subire una revisione del lessico e del metodo a favore di nuove traiettorie operative volte alla riduzione del consumo di risorse – inclusa quella di suolo – e alla definizione di nuovi modelli autoriali.

Collaborators
Erasmo Bitetti, Simona Cavallaro, Alberto Farsura, Andrea Franzin, Paola Perez

Università Iuav di Venezia, Italia

Fernanda De Maio, Alessia Scudella

Back to Clay

Edward Burtynsky, Dryland Farming #24, Contea di Monegros, Aragona, Spagna, 2010
Edward Burtynsky, Dryland Farming #24, Contea di Monegros, Aragona, Spagna, 2010

“Quando il Signore Dio fece la terra e il cielo,
nessun cespuglio campestre era sulla terra, nessuna erba campestre era spuntata - perché il Signore Dio non aveva fatto piovere sulla terra e nessuno lavorava il suolo
e faceva salire dalla terra l’acqua dei canali per irrigare tutto il suolo;
allora il Signore Dio plasmò l’uomo con polvere del suolo e soffiò nelle sue narici un alito di vita e l’uomo divenne un essere vivente”
(Genesi, cap.2, versetti 4b-7)

Proviamo a leggere questi versi biblici per quello che sono, al di là di ogni possibile interpretazione religiosa. Leggiamoli per il modo in cui descrivono l’origine del mondo come lo conosciamo, come un contesto fatto di acqua e terra; leggiamoli per il modo in cui descrivono il legame tra l’uomo e la terra nell’atto della sua creazione, da parte di un’entità soprannaturale o meno; leggiamo questi versi nell’accezione in cui rappresentano l’uomo attraverso l’intima connessione tra la sua creazione e il senso della sua vita sulla terra: lavorare il suolo, prendersi cura della Terra. Alla luce di questi versi, a metà strada tra inno e poema, si comprende perchè Hanna Arendt scrisse Vita Activa nel bel mezzo del Novecento turbolento, allorquando l’umanità cominciava a trasformare il desiderio dell’altrove nell’esplorazione dell’Universo e dunque cominciava la prefigurazione di una vita lontana dalla Terra in cui rischia di venir meno l’essenza stessa dell’Umanità come la conosciamo da millenni. D’altra parte, non solo l’avanzare delle scoperte spaziali ma anche quelle dell’informatica e del calcolo computazionale, ci pongono di fronte a diverse forme di “alienità”. L’alieno, infatti, non è solo una possibile forma di vita che possiamo incontrare in un altrove di un futuro sempre più prossimo ma è anche quell’intelligenza artificiale generativa, che ben presto ci soppianterà nell’attività che ci connota come esseri umani: il lavoro. Dall’interno di noi stessi e delle nostre capacità stiamo generando una forma di vita artificiale e con essa dobbiamo imparare a convivere. Cosa ci distinguerà da questa nuova forma di vita? Qui ipotizziamo che a distinguerci come esseri umani sia la capacità di commettere errori; di scoprire cose meravigliose in nome di questi errori e di imparare da questi nuove cose o verità. Nel corso del workshop analizzeremo i modi in cui un’attività lavorativa manuale genera comunità in diverse parti d’Italia e quindi architetture e città e a connetterle con altri luoghi del mondo. Proveremo a investigare i modi attraverso cui le mani ci aiutano a costruire ragionamenti intorno all’architettura, alla città e al paesaggio. Ragioneremo sul contributo delle donne al lavoro manuale e sul progetto dello spazio del lavoro a loro destinato. Esploreremo, altresì, i modi in cui l’errore umano ha un valore positivo per il pensiero architettonico, nutre la nostra immaginazione, rende unica e speciale un’opera dall’altra. Da un errore strutturale è nata la Torre di Pisa; da un errore “grammaticale” nascono i cosiddetti nuovi linguaggi dell’architettura, dal decostruttivismo in poi; da errori di pianificazione si originano le cosiddette città “informali” che ampliano a dismisura le città-mondo di tutti i continenti, stabilizzando nuove imprevedibili morfologie, perchè l’errore è anche un atto di resistenza per ritrovare noi stessi e la nostra umana intelligenza.

Collaborators
Gianluca Contran, Alessandro Leonardi

Università Iuav di Venezia, Italia

Antonella Gallo

Lost Labor

La trasformazione del mondo contemporaneo impone una riflessione critica sulle scelte che guidano il nostro modo di abitare, progettare e vivere gli spazi. Il rischio di un ritorno a schemi consolidati, in particolare a un modello economico che tende a mercificare ogni aspetto della realtà, non può essere ignorato. L’architettura, in quanto disciplina che incide profondamente sul rapporto tra uomo e ambiente, è chiamata a interrogarsi sulla propria natura e sui principi che la guidano. In questo contesto, si pone una questione centrale: dobbiamo orientarci verso un futuro dominato dall’immaterialità e dall’astrazione o recuperare la dimensione concreta e sensibile dell’esperienza? La risposta a questa domanda non riguarda solo il linguaggio del progetto, ma coinvolge la nostra concezione dell’arte, della conoscenza e persino della nostra stessa umanità.

Io penso che non dobbiamo tornare tra le braccia del “neocapitalismo” e alla sua “mercificazione” di tutto, per esempio dell’architettura. È un sistema che non funziona bene se cancella la vita e il pianeta stesso.

Si tratta di scegliere tra “immaterialità” e “materialità” dell’esperienza. Sono termini letterari ma per capirci sono utili. Sappiamo bene che la materia, come era un tempo concepita, non esiste nell’universo, se non in minima quantità; non è stata fin qui definita l’essenza della “energia oscura”, ma gli scienziati ci dicono che essa costituisce il 70% dell’universo, mentre il restante 30% è costituito da altre quattro sole forme di energia. La cosa ci interessa solo se crediamo che anche i nostri progetti e le nostre architetture, insomma il nostro lavoro, soggettivo e intersoggettivo, ha origine nell’energia ed è trasmissione di energia.
Se il nostro mondo di “percezioni” di oggetti, di “interpretazioni” di fenomeni, di “invenzioni” di situazioni è dominato da uno strumento “digitale”, il “pensiero”, il “progetto” si allontaneranno sempre di più dalla parte più antica del cervello umano, dove il “sistema emotivo primario” sviluppa, come negli altri animali, la ricerca del cibo, il desiderio sessuale, la paura, la collera, i sentimenti panico, il divertimento del gioco.

C’è la possibilità che, come nelle macchine dotate di intelligenza artificiale, la ragione astratta cancelli anche tutte le emozioni secondarie, dall’umorismo alla vergogna, e che tutte le arti diventino, come volevano e sperano certe avanguardie, prive di intenzioni espressive.

La scelta opposta, quella materialista, dilata enormemente i territori della sperimentazione, punta sulla corporalità dell’uomo e delle cose, accetta i limiti e gli stessi inganni insiti in una percezione sensibile del mondo, considera insieme importanti la necessità di saper recuperare architettonicamente alla calma e alla frescura un interstizio nel tessuto della metropoli, e l’invenzione di una pavimentazione appropriata nell’accesso all’Acropoli di Atene. Il fatto che l’Arte sia soprattutto questione di “sensibilità” non dovrebbe meravigliare. Perciò l’educazione non dovrebbe cancellarla, ma svilupparla con l’esercizio.

Collaborators
Francesca Bianchi, Leandro Esposito, Matteo Isacco

Università Iuav di Venezia, Italia

Simone Gobbo

Theory is an Unfinished Worksite

Iwan Baan, Torre David #10, 2012. Immagine per gentile concessione dell'artista e della Perry Rubenstein Gallery, Los Angeles. Immagine per gentile concessione della Barbican Art Gallery
Iwan Baan, Torre David #10, 2012. Immagine per gentile concessione dell’artista e della Perry Rubenstein Gallery, Los Angeles. Immagine per gentile concessione della Barbican Art Gallery

Il workshop indaga il cantiere nella dimensione temporale, spaziale e tecnica, per riabilitare questa pratica essenziale dell’architettura attraverso la teoria. La teoria è un cantiere non finito. È una dichiarazione di intenzioni che vuole sperimentare l’attitudine all’utilizzo del pensiero in un’azione imperfetta di ricomposizione di condizioni non complete del processo di realizzazione di un’architettura.

Il nostro gruppo di lavoro sperimenterà un approccio teorico-progettuale con l’obbiettivo di immaginare le possibilità evolutive dello spazio della costruzione. Nella storia dell’architettura il cantiere è generalmente messo ai margini del discorso teorico e spesso gli stessi autori evitano di evidenziare questo passaggio del processo nel quale la teoria diventa una forma di presenza.

Lo sguardo è volto alle potenzialità del cantiere come condizione aperta a molte evoluzioni, ricercando teorie che siano capaci di offrire differenti trasfigurazioni del luogo mettendo insieme contesti di produzione dell’architettura con quelli del pensiero. Abbiamo interesse a esplorare la presenza della teoria dentro le dinamiche della costruzione, dimostrando che il pensiero è sempre determinate anche nella definizione di azioni utilitaristiche. Rifletteremo su quanto la teoria possa aiutarci come architetti ad affrontare le condizioni incerte del contemporaneo, proveremo a rendere abitabili cantieri abbandonati o riflettere sulla possibilità di usare il tempo del cantiere in modo anticonformista.

Ci sono molte condizioni di abbandono e di fallimento del processo costruttivo che richiedono una teoria in grado di riusare questi edifici non finiti in un modo economico e rapido, offrendo risposte ai processi convenzionali che derivano da un’economia di tipo capitalistico.

Individueremo alcuni casi studio dai quali estrapolare una ricerca teoria sull’idea di cantiere in mutazione, sperimenteremo a partire dagli elementi presenti nel cantiere e useremo la tecnologia come strumento di speculazione immateriale, favorendo nuove forme di riuso e riciclaggio degli elementi dell’architettura. La teoria sarà lo strumento guida e proveremo ad usarla come un’architettura di parole capace di trasformarsi in un cantiere potenzialmente infinito e continuamente differente.

I luoghi del lavoro saranno i cantieri stessi. Intenderemo questi spazi come il contesto di costruzione materiale e insieme immateriale dell’architettura. Tenteremo di usare il lavoro e la sua fatica fisica e intellettuale come un fattore che trasforma le energie e gli istinti in un’architettura discontinua, forse con una percezione visiva a bassa definizione, ma con una forte intensità emotiva relazionale. In fondo, si tratta di accettare il conflitto e di lavorare come in un cantiere del progetto stesso, usando la teoria al posto della gru sollevatrice, o la costruzione al posto delle parole.

Collaborators
Michele Anelli-Monti, Thomas Chudoba, Pietro Franchin, Mattia Ghiraldo, Martina La Scala, Maria Beatrice Vanuzzo

Università Iuav di Venezia, Italia

Guido Morpurgo

Meta-Labor/Crossing-Labor. Progettare e costruire un’“Officina morfologica”* nelle Galeazze all’Arsenale

David Smith al lavoro nella fabbrica dismessa dell’Italsider di Genova-Voltri, 1962. Fotografie Ugo Mulas © Eredi Ugo Mulas. Tutti i diritti riservati

Il workshop Meta-Labor/Crossing-Labor esplora la dimensione riflessiva e produttiva del lavoro dell’architetto nella costruzione di spazi per le arti plastiche a partire da un contesto emblematico: le ‘impronte’ architettoniche degli ex cantieri delle Galeazze dell’Arsenale. Storicamente luogo di lavoro manifatturiero connesso alle costruzioni navali, oggi le Galeazze sono una fragile testimonianza di un’eredità spaziale sospesa rispetto alla quale si propone un’indagine progettuale basata sulle intersezioni tra architettura e pratiche artistiche contemporanee, con l’obiettivo di riattivare questi spazi post-industriali come luoghi di produzione culturale.

La nozione di labor viene qui intesa in senso duplice. Da un lato, come lavoro culturale dell’architetto che riflette sul proprio fare concettualizzandone strumenti e finalità, quindi labor in quanto attività intellettuale: progettare con la materia e con la storia sedimentata del sito e le sue spolia. Il secondo significato di labor corrisponde alla formazione di spazi capaci di accogliere le molteplici forme del lavoro artistico – scultura e pittura, fotografia, performance, scrittura, suono – attraverso la costruzione concreta di architetture che ne amplifichino le possibilità espressive.

Il prefisso meta – nucleo concettuale del workshop – richiama la necessità di una presa di coscienza del ruolo dell’architetto, quindi promuovere una riflessione sul senso dell’architettura come lavoro progettuale e costruttivo responsabile. Il termine crossing allude all’attraversamento delle discipline artistiche, linguaggi e temporalità che tale operazione comporta.

L’obiettivo del workshop non è la definizione di un progetto concluso in sé stesso, ma l’attivazione di un processo critico e creativo che si interroga sul significato contemporaneo del ‘costruire per lavorare’ e del ‘lavorare per costruire’ nell’Arsenale che ha rappresentato il cuore produttivo di Venezia, dando vita a nuovi spazi dedicati allo studio delle forme tramite le arti.

Il workshop si configura così come un laboratorio di attraversamenti nelle rovine delle Galeazze ripensate come “Officine morfologiche” in cui le tensioni tra passato e futuro, tra permanenza e transitorietà, tra l’intenzione architettonica e il gesto artistico siano affrontate tramite un esercizio collettivo di ascolto e immaginazione. È così che la restituzione all’architettura della sua dimensione etica e poetica avverrà riattivando questi edifici industriali veneziani abbandonati per pensare, trasformare, lavorare in architettura, costruendo spazi per la produzione delle forme dell’arte quali pratiche conoscitive disseminate nell’esperienza del reale.

Organizzazione del workshop:
– conoscere le prerogative culturali, storiche e dimensionali del sito di progetto e averne esperienza diretta
– progettare l’“Officina morfologica” e costruirla in scala 1:20
– realizzare una costruzione plastica al vero: predisposizione della carpenteria e montaggio della mostra del progetto.

  • B. Pedretti, M. Reginaldi, 2001
Collaborators
Sharmin Akter, Laine Nameda Lazda

University of Southern Denmark (SDU), Danimarca

Alberto Innocenti

WATER CITIES. Embracing water with innovative designs

Collage di Alberto Innocenti. Rielaborazione di Copenaghen harbour baths. Crediti immagine Julia Schenner (6 giugno 2023)
Collage di Alberto Innocenti. Rielaborazione di Copenaghen harbour baths. Crediti immagine Julia Schenner (6 giugno 2023)

La relazione intrinseca tra acqua e città è ben nota. Oggi, le città più densamente popolate si trovano nelle zone costiere o lungo i fiumi. Storicamente, le regioni costiere hanno attratto insediamenti e comunità grazie alla loro ricca biodiversità, alle abbondanti risorse naturali e ai vantaggi logistici che facilitano il commercio. La maggior parte delle città e delle megalopoli di tutto il mondo ha uno stretto rapporto con l’acqua e il loro sviluppo è spesso legato alle attività portuali.
Nell’interazione tra terra e mare, i porti sono stati costruiti nel corso dei secoli per facilitare il trasferimento e il flusso di merci, persone, commercio e idee, modellando non solo i paesaggi urbani e marittimi ma anche le strutture sociali, economiche e di governance. Sebbene questi porti siano parte integrante della città, non sempre sono accessibili alle comunità locali e possono non integrarsi pienamente con le funzioni urbane. In passato esisteva un forte legame tra porti e città, caratterizzato da una stretta relazione tra le attività marittime e il territorio circostante. Nonostante ciò, questi legami si sono indeboliti nel tempo a causa dell’industrializzazione dei porti e della riqualificazione dei waterfront urbani. Le moderne attività portuali si sono allontanate dal nucleo urbano originario intorno al porto.
Il cambiamento di paradigma delle città portuali, da hub produttivi a spazi vivibili, è guidato da esigenze specifiche come l’aumento delle dimensioni delle navi, la crescita industriale specializzata, le preoccupazioni per la sicurezza e le esigenze di spazio: tutti fattori che promuovono la separazione piuttosto che l’integrazione tra porti e città. Questo atelier si propone di esplorare la profonda connessione tra città, porti e acqua, concentrandosi sull’esplorazione di nuovi modi di progettare spazi pubblici con funzioni e attività innovative, nonché di creare progetti che abbraccino l’acqua sulle coste urbanizzate per contrastare gli eventi climatici e migliorare la biodiversità. Il caso studio sarà la città di Copenaghen, in Danimarca, dove la rivitalizzazione dell’area portuale funge da laboratorio ideale per migliorare la progettazione degli spazi pubblici, rinaturalizzare le coste e integrare l’acqua nella vita e nelle attività quotidiane.

Collaborators
Paolo De Martino, Vittoria Ridolfi, Folco Soffietti, Hadi El Hage, Alessandra Fudoli

UPT Universiteti Politeknik i Tiranës, Albania

Armand Vokshi, Irina Branko, Loreta Çapeli, Gjergj Islami, Jonida Meniku, Jonila Prifti, Andi Shameti

Dal Progresso Industriale (durante la dittatura comunista) all’Intelligenza Artificiale: continuità e discontinuità nel progresso tecnologico e lavorativo

Tempi Moderni © Roy Export S.A. S
Tempi Moderni © Roy Export S.A. S

Albania, il paese dei contrasti storici, ha attraversato una sequenza di trasformazioni epocali che hanno ridefinito in profondità le modalità di produzione, comunicazione e organizzazione sociale. Durante la dittatura totalitarie, il dittatore Enver Hoxha spingeva fortemente verso la meccanizzazione del lavoro e l’industria, e questo ha segnato l’inizio di un’accelerazione tecnologica senza precedenti negli anni Settanta. Questa prima ondata ha ridisegnato le città, (anzi si sono fondate delle città di lavoro), i rapporti di lavoro e l’intero assetto economico, spingendo verso un modello produttivo centralizzato, “socialista” (secondo loro) e sempre più dipendente dalle nuove tecnologie autoctone.

Se si tratta di qualche successo durante questo periodo feroce, si può nominare l’elettrificazione, e la produzione dell’energia elettrica dipendente dai fiumi potenti del piccolo paese, ma il resto era un’industrializzazione rimasto in tentativo. Oggi, trentacinque anni dopo il crollo del comunismo, il paese possiede numerosi siti di archeologia industriale, collocata quasi in tutte le città. Queste rovine industriali hanno inciso nuovi paesaggi, e spesso sono pezzi straordinari di Ingegneria e di architettura.

L’avvento dell’Intelligenza Artificiale rappresenta oggi un ulteriore salto qualitativo, per molti aspetti assimilabile a una nuova rivoluzione industriale. A differenza delle precedenti, l’AI non si limita a sostituire il lavoro manuale o a migliorare l’efficienza produttiva: essa entra nei processi cognitivi, ridisegnando i confini tra attività umana e automazione. Dall’assistenza sanitaria alla finanza, dalla logistica alla creatività, l’intelligenza artificiale sta modificando radicalmente il nostro rapporto con la conoscenza, il lavoro e l’identità personale.

Tuttavia, questa transizione solleva interrogativi etici, economici e politici sempre più urgenti: chi controlla gli algoritmi? Chi trae beneficio dalla loro applicazione? Qual è il ruolo dell’essere umano in un contesto in cui le macchine sembrano pensare, apprendere, creare? In questo senso, l’AI non è solo una questione tecnica, ma culturale e sociale. Guardando al passato, possiamo riconoscere una continuità nel desiderio umano di superare i limiti materiali attraverso la tecnica; ma oggi, come allora, il progresso richiede una riflessione critica sui suoi effetti e sulle sue finalità.

In definitiva, il percorso dalla Rivoluzione Industriale all’Intelligenza Artificiale non è lineare né neutrale: è una storia fatta di innovazioni e contraddizioni, in cui ogni conquista tecnologica apre nuove possibilità ma anche nuovi squilibri. Comprendere questa traiettoria significa dotarsi degli strumenti per affrontare con consapevolezza le sfide del presente e del futuro. Unire l’archeologia industriale con l’intelligenza artificiale (IA) apre nuove prospettive per la valorizzazione del patrimonio industriale e la trasformazione del mondo del lavoro.

Program

Monday, June 23 2025

10:00
Tolentini, Cloister
Welcome, check-in, consegna vademecum e programma, assegnazione aule, identità digitali per accesso a internet

11:00
Tolentini, Aula Magna
Inaugurazione e saluti

14:30
Cotonificio veneziano, Magazzino 6
Inizio dei lavori dei singoli atelier

Tuesday, June 24 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Wednesday, June 25 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Thursday, June 26 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Friday, June 27 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Monday, June 30 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Tuesday, July 01 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Wednesday, July 02 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Thursday, July 03 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Friday, July 04 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Monday, July 07 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Tuesday, July 08 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Wednesday, July 09 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Apertura straordinaria della sede fino alle 21:30

Thursday, July 10 2025

09:00
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Work in progress

Apertura straordinaria della sede fino alle 22:30 

A partire da mezzanotte, tutte le aule e gli spazi comuni del Cotonificio veneziano e dei Magazzini saranno riordinati. Tutti i materiali non segnalati come materiali utili alla mostra saranno smaltiti.

Friday, July 11 2025

09:30
Cotonificio veneziano + Magazzino 6
Vernissage con le autorità
Esami

10:00
Cotonificio veneziano, Aula A1
Apertura votazioni della giuria di studenti e docenti dei migliori workshop

17:00
Cotonificio, Ex Archivio
Inaugurazione mostra permanente

18:00
Terese
Proclamazione

19:00
Terese
Festa

Monday, July 14 2025

09:00
Cotonificio veneziano, Magazzino 6
Disallestimento della mostra temporanea nelle varie aule (solo mattino). Gli studenti potranno portare via i propri lavori. Eventuali materiali rimasti in sede verranno smaltiti.

Colophon

Università Iuav di Venezia
WAVe 2025
 
Labor. New Workplaces, Theories and Forms of Collaboration
 
Workshop di Architettura Venezia
23 giugno – 11 luglio 2025
Cotonificio veneziano
 
Curatori
Michel Carlana
Simone Gobbo

Staff
Martina Bortolotti, Silvia Narducci, Alessia Scudella, Massad Abdelgadir Massad Osman
 
Staff amministrativo
Lucia Basile, Federico Ferruzzi

Identità visiva
Lorenzo Mason Studio

Con la collaborazione di
Angelo Maggi, Elisa Zatta

Collaborazioni interne
Servizio fotografico e immagini Iuav
Laboratorio strumentale per la didattica Iuav
 
Con il sostegno di
Fondazione Iuav

Contatti
wave2025@iuav.it

Instagram
iuav_wave